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L’ENERGIA TRADOTTA IN TENSIONI FORMALI

La natura di Filippini raccontata nella sua potenza e nel suo incanto

 

Nel riproporre il particolare come scultura autonoma, nel manipolare e ricapovolgere l’opera, nel confrontarla in altri contesti, nel recupero della materia, l’artista trova gli stimoli e nuovi interessi; interesse e piacere per qualcosa che altrimenti finirebbe nell’archivio della memoria o in qualche polveroso deposito.

Dall’analisi assunta si evince come risulta più che necessario nel lavoro di Giacomo Filippini una revisione delle operazioni passate per verifiche e confronti indispensabili per districarsi in quelle ricerche che da anni più che affrontare rigorosamente insegue con intuizioni nei modi più impensati.

L’artista è attivo, opera scelte, lavora: sia le esperienze recenti che tracce più lontane riaffiorano insistenti e condizionano il suo operare utilizzando in prevalenza il ferro e l’acciaio.

Nelle espressioni formali si coglie il modo di progettare e produrre di Giacomo, sempre frutto di ricerche e sperimentazioni divenute parte fondamentale del processo creativo dell’artista.

“…voglio poter creare immagini che lievitano nello spazio, farle muovere e mutare e, nel tempo stesso, poterle improvvisamente congelare”

E’ nelle parole dello scultore che si delinea il percorso di ricerca che conduce l’artista a creare o ricreare sempre un nuovo immaginario fino a proporre un bestiario fantasmatico.  

Talvolta usa tracce di colore fuso alla forma, sembra il tentativo di volere oltrepassare i confini fra pittura e scultura, attraverso lo spazio fisico occupato o conquistato.

La scultura: quest’arte che ci dà la possibilità di essere vista dal di fuori, di restare in muto silenzio o di fronte alla presenza fisica dell’opera, ci permette di entrare, di circolarvi attorno, di divenirne parte di quel mondo affascinante fatto di grovigli metallici.

L’artista dice: “è arte fantastica, per me quella che lo diviene per lo spettatore

Ecco a cosa vuole approdare la ricerca formale di Giacomo Filippini, coinvolgere il fruitore e condurlo ad innestare le proprie fantasie. L’arte è il prodotto di una evasione del singolo, intuita dagli altri.

Lo scultore sembra forzare la frettolosa disattenzione di un pubblico abituato da troppa informazione culturale a non vedere, a non gestire liberamente il proprio spazio mentale.

Agli inizi nel suo studio di Flero (Brescia) poteva muoversi e lavorare in uno spazio che a lui pareva vastissimo, ma negli anni la sua produzione si è sviluppata con opere sempre più imponenti e l’atelier è andato riempendosi quasi sino alla saturazione.

L’artista usa i materiali, come un regista, come un trovarobe teatrale, come un narratore di storie e racconti per lavorare sulla memoria, cercando di creare percorsi, labirinti, dove poter incontrare l’eventuale visitatore-fruitore e poi perdersi con lui all’interno dell’opera stessa, oltre che psicologicamente anche fisicamente nella pluralità delle angolazioni o nei fantastici agglomerati ferrosi della materia o delle indicazioni suggerite.

Questa è oggi forse la principale prospettiva del suo lavoro, domani, nel futuro chissà.

Carmine Iandoli